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Il sequestro Moro sulle colonne de «l’Unità»



di Francesco Palaia e Ilaria Romeo


L’11 marzo 1978 viene costituito il cosiddetto governo della non sfiducia, il primo esecutivo che si avvale dei voti del Pci. La mattina del 16 marzo le due Camere vengono convocate per discutere e votare la fiducia. Quella mattina in via Fani, a Roma, un commando delle Br rapisce Aldo Moro, presidente della Dc e principale sostenitore dell’intesa e uccide i cinque uomini della sua scorta: Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Jozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. 

La Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil proclama lo sciopero generale e migliaia di lavoratori, studenti e cittadini si riversano nelle piazze delle grandi città: a Torino in piazza San Carlo, a Milano in piazza Duomo, a Roma in piazza San Giovanni. La risposta al terrorismo è corale. Le imponenti manifestazioni popolari fotografano un afflato emotivo nazionale che «l’Unità» coglie e restituisce nel lungo editoriale del 17 marzo: “Se i criminali che hanno ideato e attuato il tragico agguato calcolavano di impaurire e dividere gli italiani, di creare uno stato di smarrimento e di confusione, così da scavare un solco tra le masse e le istituzioni democratiche, ebbene si sono sbagliati. Ciò che è accaduto ieri, subito dopo il rapimento di Aldo Moro e l’efferato massacro della sua scorta, è qualcosa che emoziona. L’Italia è davvero un paese straordinario («l’Unità», 17 marzo 1978).

Il 19 marzo su tutti i principali quotidiani campeggia la foto di Aldo Moro prigioniero e l’annuncio che le Br intendono processarlo; «l’Unità» apre con un titolo eloquente, Un uomo torturato:  “L’animo con cui siamo costretti a pubblicare la foto di Moro nelle mani dei suoi carcerieri è molto triste. Lo facciamo con il ribrezzo di tocca un documento maneggiato da assassini di mestiere. […] costoro non attentano solo alle pubbliche libertà, ma a ciò che l’uomo ha di più suo: la dignità” («l’Unità», 19 marzo 1978). 

Nello stesso numero Enrico Berlinguer, segretario del Pci, interviene con un lungo editoriale per ribadire la linea del partito di unità e rigore: “E’ giunto il momento di scegliere da che parte si sta. Noi la scelta l’abbiamo fatta. Essa è scritta nella nostra storia. Il regime democratico e la Costituzione italiana sono conquiste irrinunciabili del movimento operaio. Ma c’è molto da cambiare nella società e nello Stato, guai ad allentare la difesa delle conquiste realizzate e delle istituzioni repubblicane. Non c’è oggi compito più urgente e più concretamente rivoluzionario che quello di fare terra bruciata attorno agli eversori («l’Unità», 19 marzo 1978).

Il 1° aprile Emanuele Macaluso replica a Rossana Rossanda che sulle colonne de «il manifesto» aveva parlato di “album di famiglia”: “Io non so quale album conservi Rossana Rossanda: è certo che in esso non c’è la fotografia di Togliatti; né ci sono le immagini di milioni di lavoratori e di comunisti che hanno vissuto le lotte, i travagli e anche le contraddizioni di  quegli anni. […] anche negli anni in cui il nostro partito praticò il cosiddetto  culto di Stalin seppe sempre elaborare una strategia e attuare una politica che  ha avuto come asse portante lo sviluppo della democrazia e la costruzione di  uno Stato segnato da quei tratti che abbiamo contribuito a definire nella Costituzione” («l’Unità», 1° aprile 1978). 

La linea della fermezza e la contrarietà alla trattativa viene ribadita dal Pci il 28 aprile e illustrata in un editoriale in cui si legge: “Quando diciamo nessuna concessione intendiamo dire no a qualsiasi atto che significhi entrare in un qualsiasi rapporto contrattuale con le Br. Tale sarebbe anche un cosiddetto patteggiamento muto fra Stato e Br, cioè uno scambio di prigionieri da compiere tramite gesti cosiddetti autonomi, in realtà calcolati nell’illusione di ottenere una contropartita” («l’Unità», 28 aprile 1978). 

Analoga posizione viene espressa qualche giorno dopo da Sandro Pertini, che, rompendo un lungo silenzio, dichiara: “Trattare significherebbe dare a questi criminali una legittimità morale e politica, e le forze dell’ordine si sentirebbero autorizzate ad alzare le mani e a non più resistere: significherebbe offendere la memoria dei molti poliziotti, carabinieri e cittadini spietatamente assassinati dalle Brigate rosse («l’Unità», 4 maggio 1978).

 Il 9 maggio le Br uccidono Aldo Moro e fanno ritrovare il suo cadavere  in via Caetani, all’interno di una Renault rossa.

I 55 giorni iniziati  in via Fani e terminati a un passo dalle sedi della Dc e del Pci sono un  trauma drammatico nella storia del paese.

La reazione popolare è immediata: scioperi e manifestazioni si susseguono nelle principali città italiane e nelle grandi fabbriche. 

La Direzione del Pci, riunitasi appena si diffonde la notizia,  stende un breve comunicato per indicare la risposta da dare ai terroristi: “I comunisti inchinano le loro bandiere alla memoria di Aldo Moro. In questo  momento drammatico per il paese, i lavoratori, le masse popolari, i partiti  democratici, rinsaldino la loro unità in difesa della Repubblica e delle  istituzioni. […] nessuno può sentirsi estraneo a questo impegno democratico e  civile. La lotta non sarà breve né facile. […] il Pci chiama tutti i compagni e  tutte le organizzazioni del Partito alla vigilanza contro ogni tentativo eversivo ed ad estendere i più saldi legami con tutte le forze democratiche e  antifasciste. I comunisti saranno come sempre in prima fila nella lotta per la difesa, il rafforzamento, il rinnovamento della Repubblica («l’Unità», 10 maggio 1978).

Nelle grandi fabbriche gli operai decidono di sospendere autonomamente il  lavoro per due ore, mentre per il giorno dopo la Federazione unitaria Cgil Cisl-Uil e la Flm proclamano lo sciopero generale, il blocco immediato delle  aziende e il presidio per tutta la notte delle fabbriche fino alla ripresa del  lavoro l’indomani mattina. 

A Roma i sindacati convocano una prima  manifestazione per il pomeriggio del 9 maggio alla quale partecipano Lama, Macario e Benvenuto. Nella nota della Federazione unitaria si legge: “La Federazione unitaria rivolge un appello ai lavoratori perché in questo  momento così grave per il paese rafforzino la mobilitazione e la lotta contro il  terrorismo e si pongano nei luoghi di lavoro e nella società civile a fermo presidio delle istituzioni democratiche” («l’Unità», 10 maggio 1978). 

Uscendo dalla sede della Federazione unitaria di via Sicilia a Roma Luciano Lama ribadisce la volontà di collaborare con le forze dell’ordine nella lotta al  terrorismo: “Abbiamo la responsabilità di portare l’Italia fuori da questa situazione. Il  compito principale è isolare gli assassini. […] occorre organizzare le forze,  tutte le forze disponibili per difendere la democrazia. Le grandi masse non possono assistere disarmate o piangenti, perché anche piangere non basta («l’Unità», 10 maggio 1978). 

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